IL MIO PENSIERO E’ SEMPRE LUMINOSO | TESTO DI MARCO LODOLI

Randevù
(Dalla presentazione in catalogo di Marco Lodoli)

Per il bambino e il poeta ogni oggetto contiene un movimento. Anche un sasso, anche un armadio sono colmi di un tempo che li scuote e li rende sacri. L’adulto concettualizza, sostituendo l’amore e la paura con un pensiero comodo, svuotando il mondo d’ogni contraddizione. Ogni cosa va al posto giusto, la vita diventa magazzino e l’uomo magazziniere. La polvere inizia a scendere sugli scaffali e su un giorno che si ripete sempre identico e poi di colpo scompare. L’arte ha un compito decisivo: serve a ricordarci il disordine misterioso dell’esistenza, quell’esplosione di linfe e rami e uccelli e stagioni e sentimenti, e a cercare nel caos una legge che non sia paralisi e rinuncia. E’ la dinamica degli opposti, la loro finale coincidenza, a muovere e commuovere l’artista. Ciò che pare per sempre separato, ha il suo appuntamento d’amore più in là, più in alto. L’arte convoca il bianco e il nero, il pari e il dispari, il fango e il cielo e li costringe a battere tra loro come pietre, per accende un fuoco che scaldi e illumini. Francesco Bocchini inventa ogni momento un teatro dove i personaggi sono chiamati al confronto, allo scontro, e i personaggi sono energie, ricordi, parole, fantasmi, oggetti, momenti del passato e del presente: ognuno vorrebbe recitare il suo monologo, ergersi a protagonista assoluto, ma Bocchini li obbliga tutti a un dialogo serrato, fatto di reciproche incomprensioni, di stridori e insofferenze.  Come ogni romagnolo, Bocchini sa cos’è un circo, sa che la leggerezza del giocoliere vive accanto alla pena del pagliaccio,  che il cielo striato dell’acrobata si stende sopra il peso e la merda degli elefanti, e tutto è compreso dentro quel cerchio patetico e sublime che è semplicemente la quintessenza dell’universo. Sa cos’è un caffè d’inverno quando il mondo intero chiede ospitalità intorno a un bancone o a un biliardo, e il niente e i massimi sistemi, la noia e le illusioni, l’ingegnere e il matto fanno famiglia. L’arte sta nell’accostare le differenze, nel riconoscerle come parti di un solo organismo vivente. Così le povere sculture metalliche di Bocchini sono obbligate a acendere a patti con l’azione più sgangherate. Forse vorrebbero scintillati immobili, come scatole di sardine sognanti, ma in loro entra una molla, una rotella, e la quiete incontra il movimento, e il movimento urta contro il nulla. “Invisibile nell’abbraccio della quiete giace il moto, e nel moto la quiete è nascosta”, è scritto nel poema indiano delle Tredici posizioni. E la Romagna in fondo è una provincia ruvida e lontana dell’India, e il Marecchia e il Gange mescolano nelle opere di Bocchini le loro acque sudicie e sapienti. Qui rimane tutto più storto, più incerto, ma anche più appassionato. C’è una saggezza avventurosa che non vuole dimenticare la terra e le sue immagini, che ha bisogno di raccogliere tutti i cocci per comporre nuove figure. E anche i racconti si mescolano, fino a formare una storia nuova, o forse è sempre la stessa storia di strazio e speranza che vuole ascolto: e allora i nomi dei campi di concentramento nazisti si posano su scarpine bene allineate che possono fare pensare a quei depositi dove gli ebrei lasciavano i loro beni prima di incamminarsi verso l’orrore, ma a me ricordano di più le vetrine di viale Ceccarini a Riccione, dove la moda più scanzonata e cafona si mostra agli occhi avidi e giocondi della contemporaneità.
Chi cammina su quelle scarpe, ci ricorda Bocchini, cammina sulla strada dolorosa della Storia, che era criminale sessanta anni fa e lo è sempre, anche oggi che tutto pare uno scherzo. Il Male Assoluto e la Spensieratezza si sposano, perché nel mondo tutto esiste contemporaneamente e ognuno di noi, suggerisce con grazia Bocchini, è invitato a questo incredibile matrimonio. Ognuno ha il dovere di portare un dono: e il dono sia una consapevolezza.