(Dalla presentazione in catalogo di Roberta Bertozzi)
1.
Per i luddisti il moloch era la macchina. Essi furono i primi a comprendere la gravità funesta del suo ingresso nell’industria: le macchine si sostituivano all’uomo e dunque andavano distrutte. I luddismi, intuendo con anticipazione formidabile la devastante portata sociale di questo mutamento, non conobbero i suoi esiti antropologici. Perché le macchine sono davvero sopravvissute all’uomo: dalla iniziale motorizzazione e meccanizzazione di semplici processi fino al loro divenire protesi sofistaicatissime, molecolari, semiorganiche, le macchine hanno invaso ogni spazio umano, insinuandosi nella nostra vita al punta da assoggettarne ogni espressione, da modificarne profondamente la struttura relazionale e significativa. Accelerazione, pullulazione, sovreccitazione della materia, vertigine della replicazione illimitata e incontrollata delle merci, vita sintetica e intelligenza artificiale, in una emancipazione progressiva, verso il totale disamoramento della produzione da ogni regola, principio, finalità. Si può, dunque si fa.
2.
D’altro canto il sistema assiste da tempo alla sua enteopia, non producendo più altro che se stesso, che la propria legge di ripetizione e incremento di cui le macchine non sono oggi che gli organi fatiscenti, i cascanti simulacri. Fine della produzione, fine delle macchine: da vessilli aurei della catena produttiva, della sua energia inarrestabile, della sua ineluttabilità, ora ne sono solo il cascame rugginoso e impotente, il braccio paraplegico, il muscolo atrofizzato. Di questo Francesco Bocchini è perfettamente consapevole. E i suoi meccanismi si inseriscono ad hoc nel ciclo, portandolo ad esecuzione, al suo ultimo, esilarante spettacolo. Con il loro fare scioperante e coartato, la loro provocatoria inanità, il loro simultaneo essere affaticati e sfaticati, questi meccanismi rendono fisico, concreto lo sciopero dell’intero apparato produttivo, la sua volontaria crisi – ne sono la compiuta profezia.
3.
Quanto al Novecento, al suo disperato insidiare l’autorità del sistema puntandogli contro i suoi stessi artifici, il residuo di questi artifici – tutto il rigettato, l’inservibile, lo scarto plastico e metallico – materia non deperibile e in quanto tale destinata a essere cuneo, fossile, emblema; quanto al Novecento, al suo recupero estetico del difettoso, del disgregato, del refuso, promosso a stigma della violenza subita; quanto al Novecento, è pura e semplice archeologia. A nulla serve interrompere il flusso, sacralizzando i suoi stanchi e sgonfi dispositivi, sovvertendo il loro statuto, perché il flusso è cessato, i dispositivi smessi. Le macchine sono già scomparse, naturalizzate nella serialità maccanica dei gesti e delle forme, degli apparati e degli uffici, conglobate nella unilateralità della comunicazione, nella omologazione culturale, nella irrilevanza storica. Qui non può più esservi risarcimento estetico della parte lesa, della natura offesa, qui non può più darsi una sua sublimazione attraverso la creazione artistica; se il modello operativo è uno spento cadavere, si può solo celebrarne spoglie, fargli le degne ossequi e. Realismo, dunque, tout court – pura letteralità.
4.
Poste a confronto con il macchinario industriale e tecnico i meccanismi di Bocchini lo neutralizzano senza edificare una retorica alternativa, senza via di fuga. Ne infrangono la perpetua simulazione di una finalità allestendo direttamente la sua attività schizofrenica, il frenetico moto privo di obiettivo – di immaginario: sono l’attuazione della produzione senza scopo che ci circonda, della sua assurdità, della sua oscenità. Nessuna velleità paradossale, niente metafore o grottesco – l’operazione è del tutto simile a quella del movimento espressionista, quando, denunciando la volgarità del capitale, le sue efferatezze e le sue barbarie, finì per offrirci, senza parafrasi o scorciatoie, l’esatta caratura del suo volto – non già la rottura caricaturale di esso, la deformazione impressiva, ma la sua unica, tragica e potente, immagine.
5.
Meccanica che investe ogni dispositivo – famiglia, società, capitale, chiesa, industria, manicomio, stato: ogni dispositivi diventare meccanico, predisposto ad attuare un codice. Tutto è macchina, tutto spinge verso una equivalenza senza distinzione. In queste scatole metalliche preme il peso di tutto il lavoro (cerebrale, muscolare, atomico, biologico) morto e ripetuto – queste scatole metalliche ce ne offrono la visibilità diretta, il perfetto documentario, la torsione vocale. Perché anche la semantica interiore di questi congegni, il loro arrancare per scatti tribolanti, conflittuali, febbricitanti, la loro balbuzie gestuale, è materia linguisteica funzionale alla liquidazione del senso. Verbalità non sillabata, priva di sintassi e dunque inerme e terribile, che si coagula in sentenza sulla superficie delle opere, che ne sigla il valore d’uso e di scambio. I titoli concorrono ad attestare l’assoluta indifferenziazione tra ciò che è organico e ciò che è macchinino, sigillano la loro definitiva ibridazione, la loro identica destinazione. Ogni sistema di pensiero, ogni accaduto, ogni figura, cessa di essere una prospettiva, un contenuto di senso, una direzione, per riciclarsi all’infinito nel suo vuoto modello – per continuare la sua operetta storica ormai cornata in uno slogan, in uno stile, in una matricola. In un segno senza referente, che ci schernisce e ci turba, che ci rivela come la macchina possa benissimo fare a meno di noi.
Roberta Bertozzi