I PRIMI ASINI PENSAVANO PER CONTO PROPRIO | TESTI DI VALERIO DEHO’ E ALBERTO ZANCHETTA

Il lattoniere matto
(Dalla presentazione in catalogo di Valerio Dehò)

Vi è una dose di follia nell’arte contemporanea che corrisponde con l’idea dell’arte stessa o ai suoi confini. Trasformare la materia, quella più banale,in qualcosa di diverso, è un sogno che ha accarezzato spesso il Novecento. Bocchini fa un’operazione apparentemente semplice e maledettamente complicata da realizzare. Fare del niente un qualcosa. E’ un processo che riesce raramente, un po’ come l’alchimia o almeno l’alchimia legata all’arte. La trasmutazione della banalità in arte., Duchamp docet ovviamente dall’altezza del suo pissoir, non è da tutti, proprio perché la tentano in molti.
Da questo punto di vista state sicuri di avere un artista davanti: Francesco Bocchini. Ne ho visti tanti di tentativi incerti, di buona volontà ridotta alla fine in qualcosa che sembra arte ed è soltanto una miscela di buone intenzioni e basta. In più l’artista in questione ha dalla sua il fatto che ci crede dal di dentro e non dal di fuori. Fa del suo essere un lattoniere al servizio dell’arte (qualcosa che Lewis Caroll ha messo nel suo capolavoro) un modo d’essere e non soltanto la volontà di qualcuno che ha visto, sentito e fatto.
Trasformare in altre parole dare una diversa destinazione d’uso a qualcosa che proprio non era stata fatta per quello scopo. Le macchine certo, Bocchini alla fine realizza quella quadratura del cerchio che vogliamo avere dagli artisti. Non abbiamo voglia di pensare troppo o di dover leggere un libretto d’istruzioni prima di dover capire quello che viene offerto. Vogliamo semplicità e, in effetti, questo abbiamo dalle macchine largamente inutili dell’artista. Però nello stesso tempo c’è qualcosa di semplice che affascina, qualcosa che ci consente non solo di fare dei dovuti paragoni (Tinguely, il Beaubourg, la Saint Phalle, etc.), ma anche di attingere direttamente dalla nostra memoria personale, e a quel vissuto che condividiamo con noi stessi, e sicuramente con tanti altri. Vuol dire che allora Bocchini fa qualcosa che avremmo voluto fare anche noi, che magari artisti non siamo ma che avremmo voluto essere. Dare vita all’inanimato, ma anche dare memoria alla materia, riscattare il silenzio dell’inorganico. Dare al gioco un senso definitivo e non certamente legato ad una certa età o ad un tal rimbecillimento da psicofarmaci.
E a questo punto bisogna parlare di ciò che abbiamo evocato: le macchine. Bocchini le costruisce con lo stupore di un burattinaio, con la certezza che il mondo meccanico abbia ancora un futuro nonostante l’invadenza del mondo elettronico. Non appartenendo alla generazione di un Gilardi, corteggiatore dell’assoluto moderno perché naturalmente in eterno ritardo sulla tecnologia che verrà, se ne trega dell’ellettronica e anima un mondo pullulante di fremiti e di fruscii macchinici. Sarebbe piaciuto ad Angelo Maria Ripellino, perché è un cantore, anche se non lo sa, del mondo mitteleuropeo che va da Vaucanson a Von Kempeler, ma nello stesso tempo possiede la sanguigna praticità romagnola, che non consente di chiedere scusa per le ciambelle non riuscite. Nel senso che è sempre pronto ad assumersene la responsabilità, . E non è poco.
Cosa vuol dire. Vuol dire che alla fine le macchine di Francesco Bocchini rigorosamente azionate a mano da chi le adopera, hanno relativamente una vita autonoma e condividono  l’aleatorietà di tutto il secolo precedente, quella casualità che concede delle pause che dà al tempo il tempo di riflettere o di rassegnarsi. Non ci resta che guardare, e magari di vedere, quello che succede dopo, ma nell’orizzonte delle nostre aspettative. Il lattoniere matto però possiede una verità, quella dell’arte che non fa calcoli, ma che arriva direttamente all’immaginario e alla storia delle persone che gli sono davanti. E quello che è comunque importante è che non vi sono fascinazioni tecnologiche perché alla fine il risultato è sempre quello della pittura, anche se parla attraverso la terza dimensione o attraverso il movimento.
L’hasard, quello di Man Ray e Duchamp, si agita sempre dietro le quinte dell’inconscio. Francesco Bocchini è un surrealista post litteramm. Gioca ma fino ad un certo punto, conosce l’arte, tutta l’arte e la letteratura, tutta la letteratura. Nei suoi lavori si riflette molto di più di un’arte rassicurante e simpatica. Vi è la possibilità della catastrofe, l’incidente, il naufragio del Pequod. Allora ci sentiamo improvvisamente orfani, abbiamo perduto il comandante e siamo giocattoli nelle mani di un burattinaio scemo. Come un organetto di Barberia che abbia finito la carica, contempliamo il gioco della sopravvivenza. Tocchiamo con gli occhi le tracce della ruggine sugli oggetti, le scritte di un’epoca di felicità, i messaggi che non abbiamo capito allora e che ora sono tempo che passa, onde del mare della memoria che non vuol passare, e che forse vuole salvarci dall’ultimo naufragio.

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Una ritrovata età del ferro: ormai arrugginito
(…”sull’incudine” – anche technique du coup de grâce)
(Dalla presentazione in catalogo di Alberto Zanchetta)

L’oggetto statico, lo scatto inconsulto. Il meccanismo motore, il movimento condotto. Regolare, invariato. Semplice rudimento di atti identici, limitati, in ripetizione. Né a gas, né ad acqua. Nessuna forza eolica. A manovella! A forza – di logica! Che si tratti di installazioni a grandezza “carnera” o au contrarie di teasauri piccoli piccoli. L’automa-ta e il suo automatismo: obbligato, involontario. Scrivere Bocchini e pensare “Tinguely senza spina”, ballet mécanique di “stereometrico Léger (in effetti “il ballo rende piacevoli persone che non lo sono”). Immaginarsi a Filadelfia mentre si azionano una macinatrice di cioccolato e un apparato scorrevole contenente un mulino ad acqua in metalli vicini fino a infrangerne il vetro. Ricordarsi che anticipo per il braccio rotto di Duchamp è in realtà un comune badile per spalare la neve, e che a detta di un innamorato cronico e di un sovversivo” non si vendon badili senza fucili”(*1). In teoria/in pratica. La scaturigine dell’ossessione per le pistole. Da Majakovskij a Van Gogh. L’uno quanto l’altro suicida della società – dell’arte. Di una meccanica comportamentale; su tavolo anatomico, del lumpefon Bocchini, che il surrealismo voleva luogo d’incontro di un ombrello e di una macchina da cucire (“la schiacciatrice di bottoni d’osso” ne è la pedaliera?). Ora tavolo addomesticato. Quotidiano. Tra latte di colore; di benzina; d’olio. D’arachidi. Datteri; fave; soia. Un’infinità di legumi e tant’altre cibarie, ma anche orde di nere formiche. Sciami di zanzare e mosche metallizzate. In sollazzo per la coprolalia dei titoli, anche detta meconia dell’opera d’arte che in parte crea assuefazione. Ipso facto. Una eco di pensieri gutturali laddove digrignano i risalti degli ingranaggi, in modo nervoso, concitato (il setticemico sorriso di “Micerino” ha fauci da iena ridens, vulg_ris, terrib_lus). Come vecchi archibugi, cingolati o carlinghe ossidate. Altresì artiglieria d’artiere. PErchè il suono delle opere di Bocchini è (tecnicamente) un fenomeno parassita (apreès coup). Rumore bellico, “degenere”, di un’accademia d’arte… militare. Post-industrializzata. All’urlo di “Muoia Sansone con tutti i filistei”: si vis pace para bellum. Ecco i residui del soviet. Elegie di tanti militi. Asperità di aviatori nostrani. Impressi nelle involute di questi otto volanti tascabili. Ipnotici. E cagionevoli, letteralmente parlando, di vertigini pied-à-terre (con “Le briciole nella lettiga matrimoniale”). Che altro non sono se non attesa”, attesa di una causa efficiente. Oltre che repertorio ragionato. Bestiario. Umano. Congiuntamente alla storia e ai mestieri. Alle avanguardie (non per nulla un argot militare). Le articolazioni. Funzionali non sostanziali. Forse farraginose. Per cognizione; connessione; ordine. Dato che pensare è produrre! cose fuggevoli. Frasi squadernate, sparse, in fuga. Seguendo l’andamento stazionario, poi progressivo, indi regressivo degli automata… ossia: pragma di turbinii… un inconscio desiderio di titillare. L’arte. (di) Dix, Rousseau, Soutine, Tzara; (de)gli amici Romanelli, Olivieri, et cetera et cetera. Sicchè intenda chi ha orecchie. Da mercante. Da collezionista. Da critico. O così quelle di ciuco. Ai tempi in cui i primi asini probabilmente pensavano “(summa scientia) nihil score – omnia posse” preferendo magari sussurrarsi paroli quali “Ich bin so dump, du bist so dump, dir wollen sterne gehen, kumm!” (*2)
(*1) Paul Eluard – Benjamin Péret, 152 Proverbi nel gusto del giorno – n°138
(*2) Christian Morgenstern, Canzoni della forca – “Die beiden esel”