(Dalla presentazione in catalogo di Enzo Fabbrucci)
C’è un posto, sulla strada che da Rimini porta a Ravenna, dove crescono i fiori di latta. Una razza strana di fiori dietro alle ultime saline di Cervia che d’estate voltano la schiena al sole e rilucono come i monti della faccia lunare. Lì tra le serre che fanno nascere frutti rotondi come un prodigio il vento cambia direzione e, con l’odore del mare, viaggia il respiro delle prime nebbie.
C’è un guardiano che li annaffia quei fiori, si chiama Francesco, uno di poche parole che si spiega bene con le mani. E nel Garbino che in inverno ti consola e in estate ti ammazza crescono muti quei fiori di latta grandi come padelle. Le quaglie che hanno attraversato il mare si vengono a buttare di pancia fra di essi e lì nidificano, e poi ad agosto fanno un richiamo che sembra un fischio interrotto appena l’hai iniziato ma all’ombra delle foglie si sta già meglio e si è sorpresi da piccole magie. So di animali addolorati che camminano tra quei fiori e tentano la via crucis delle razze nate dopo la Pentecoste. Sono esseri addolorati perché di latta anche loro, e hanno dei richiami a manovella. Nei loro piccoli mondi che ci spaventano perché vi regna la vita remota e immensa della preistoria hanno facce squadrate e per occhi dei fori. Ma quando nessuno sta a sentire ecco che intentano all’ombra dei fiori un dialogo stridulo e roco con le quaglie, e allora quello è un momento di raro incanto, perché un animale che dialoga con un automa è bello come le processioni di lucciole nei sogni.
Altre volte nel silenzio notturno che fa crescere la ruggine una luna migratrice e stanca che viaggiava troppo bassa resta impigliata tra quei fiori e allora gli automi la guardano in silenzio e poi, in silenzio, giocano per ore.