BULGARICO | TESTO DI FLAMINIO GUALDONI

(dalla presentazione in catalogo di Flaminio Gualdoni)

 

Bulgarico. E’ una suggestione che sa di circense, d’una spettacolarità antieroica e, anche quando presente, di vago aroma memoriale… Come sempre nel lavoro di Francesco Bocchini il titolo agisce da amplificazione straniante, da scarto sottile di senso che porta un’opera, già concepita di per se stessa sul filo della deriva di codice, a farsi epicentro d’echi e inneschi, più che grumo, di senso.
Bulgarico. E i nomi d’una parade anarchiste, epopea senza monumenti, segnano queste bottiglie/lapide, in teoria indistinta e straniata. Silenziosi sono gli oggetti, dei quali Morandi avrebbe assaporato il tono, il consistere alla luce, e un dadaista quella sostanza dimessa e adespota, artisticamente ritratta alle soglie d’un esistenziale senza identità.
Bocchini ha, per una volta, lasciato da parte l’artificio dell’automatico, del meccanismo sferragliante e sussultorio, almeno in questo lavoro. D’altronde, il recupero del lacerto materiale è avvenuto su un piano di più complessa e intenzionata iconografia rispetto a quanto ci aveva  in altri casi mostrato. Anche la combinatoria di base si è come distillata, sottraendosi alla fascinazione giocosamente kitsch della smaltatura smagliante, della patina accidentata dal tempo, del ready-made ricombinato per détournement mentale e fantasticante prima ancora che fisico. Restano la materialità umile e forte, la pienezza tiepida di quelle coloriture, e un processo di riconfigurazione intellettuale brusco e schietto, i toni accennati della mitizzazione popolaresca: in dialetto, ma nel cuore.
Negli altri lavori posti a far corona, ecco riapparire nuovamente il congegno, l’evidenza primaria del colore, la scritta allo sbando; ecco, come in passato, la machina saporosamente sgangherata e periclitante, ma toccata da mano affettuosa anziché padrona e intenzionata, con quel tanto di scenografico da ballet mécanique da cui trapela la sana non intellettualistica genealogia d’arte di Bocchini.
Nel Casanova di Fellini, il protagonista ormai alla fine della vita maneggia con meraviglia disperata un automa perfetto ed estraneo. Nelle pagine di Guareschi si legge un elogio della bicicletta bassaiola come congegno ingegnosamente improbabile ma amorevolmente, nei cigolii, funzionante: e frutto della carezza della mano che sa e reinventa il mondo a misura d’un umano che non se la racconta, tanto quanto la bambola felliniana è perfetta e lontana, incapacità di corpo.
Ebbene, a me piace pensare che Bocchini abbia filtrato la lezione dadaista delle macchine celibi sulla misura della propria mano padana carezzevole e divertita, davvero poetica senza bisogno di allori. Ché poi quel pastrugnare (accrocchiare, in altra tradizione) fuor di regola, ma badando a una sostanza di senso lucida sino a farsi capace di bersagliare la regola stessa, da qualche altra parte, in un’altra tradizione ancora, si chiama hacking: e questo ci porterebbe a ragionare di molto altro, fuori e dentro il recinto dell’arte.
Mezzo secolo fa i suoi lavori avrebbero ispirato riflessioni sull’estetica dello scarto, sul dramma esistenziale dell’oggetto, sulla bellezza autre del residuo industriale; qualcun altro avrebbe inneggiato alle magnifiche sorti della Metallplastik. Bocchini, che ha la fortuna di vivere ora, può invece manipolare i suoi materiali arbitrari e caldi, può davvero condurre un gioco in punta di fantastico, nel silenzio confidente della sua officina kleiana, senza dover esibire passaporti teorici e proclami stilistici. Anche in questo, a furia di hacking, l’arte è arrivata a qualcosa.