Il dio che viene da una macchina
(dalla presentazione in catalogo di Roberta Bertozzi)
I’m the operator with my pocket calculator
I am adding and subtracting
I’m controlling and composing
Kraftwerk
Grecia, V secolo a.C., il filosofo Democrito anticipa forme e contenuti della scienza contemporanea: il mondo è fatto di atomi che si aggregano e si disgregano secondo particolari inclinazioni o, stupefacente profezia, secondo la particolare condivisione di un medesimo campo. L’intuizione democritea dell’atomismo della materia è una delle innumerevoli prove della essenziale arcaicità del pensiero moderno. Un filosofo greco, vissuto migliaia di anni fa, sprovvisto di tutti quei sofisticati mezzi tecnologici di cui noi oggi vantiamo il possesso, solo in virtù di una analogica, e dunque poetica, intuizione, espone i principi su cui si regge l’odierna rappresentazione del mondo, retrocedendo ogni successivo progresso teorico a pura e semplice archeologia.
Del resto, secondo l’opinione di Whitehead, tutta la filosofia occidentale non sarebbe altro che una ininterrotta glossa all’opera di Platone. Potremmo immaginare alla stessa stregua ogni presunta conquista tecnologica e scientifica dei nostri tempi? Le biotecnologie, per citare uno dei settori più avanzati della ricerca, non fanno forse affidamento su dei principi strutturali, prevedibili e dunque arcaici, della materia?
In realtà poco o nulla è mutato: il complesso della nostra raffinata conoscenza resta preda di un elementare arcaismo, la nostra evoluta visione si riduce a un’accozzaglia di déjà vu, ogni innovazione non è altro che la riconversione in termini strumentali di regole già impresse nello statuto naturale.
Cosa distingue dunque il nostro pensiero dal pensiero antico? Un pernicioso atteggiamento, una subdola intenzione. Occorre, per riconoscerla, tornare alle premesse della modernità: all’Umanesimo, al Rinascimento, epoche storiche in cui affiora quella concezione che sarà a guida dell’età moderna vera e propria, con l’insieme delle sue rivoluzioni estetiche, economiche, sociali. È in quei secoli infatti che inizia a precisarsi l’utopia di un affrancamento dell’uomo dalle contingenze naturali, il sogno demiurgico di una sua supremazia sull’esistente: produzione dell’universo in simbiosi con l’esigenza, simulazione di un mondo parallelo e autonomo, nascita della tecnocrazia.
La conoscenza si adegua e, da forma di contemplazione, diventa strumento di pianificazione funzionale alla logica dell’utile e del profitto, svincolandosi dal dover rendere conto di sé e della propria attività, staccandosi da ogni referenza oggettiva e sociale. Fino al punto in cui la scrittura della tecnica comincia a marciare da sola, il sistema prende a riprodursi in modo tautologico senza più alcun bisogno del nostro intervento, la storia artificiale subentra a quella naturale, la trascendenza si iscrive nel processo operativo – dio viene da una macchina.
Salvo la comparsa, da qualche parte, per qualche imperscrutabile motivo, di una anomalia, una cesura nello scorrimento prestante e oliato della produzione. Salvo che una sorta di anima nera, forse quello stesso arcaismo a lungo negato, inizia a espandersi come un virus infettando l’intero ciclo – mostrandoci come esso sia, contrariamente a ogni ottimistica previsione, del tutto prossimo al suo stadio terminale.
Siamo all’ultimo atto. E i meccanismi di Francesco Bocchini si prestano a celebrarlo splendidamente, per quel loro incarnare, con suprema innocenza, la completa obsolescenza della modernità, dei suoi dispositivi scientifici e tecnologici, dei suo macchinari storici e ideologici, dei suoi calcolati crimini. Nel loro astruso complesso di articolazioni, nell’assoluta incoerenza della loro catena di trasmissione che genera una motricità fine a sé stessa, impedita, sghemba, distantissima dall’efficacia operativa di ogni apparecchio cibernetico, di ogni forza motore, essi sono il perfetto manifesto della modernità fossile, della mondiale schizofrenia, della nostra civilissima barbarie.
Ciò che queste opere concretano è lo stato di decomposizione avanzato e, aggiungerei, irreversibile del corso della modernità: esse ci parlano della sua implosione proprio nel cuore di una crescita che sembra non conoscere arresto; dove l’aspetto stesso della crisi è un perpetuo simulacro finalizzato alla rigenerazione del flusso mercantile e monetario; dove la sproporzione, lo spreco, l’esubero assurgono a forme sostanziali, e profondamente imbecilli, del suo funzionamento; dove il disorientamento in cui è gettato l’uomo, il fantasma della complessità ingovernabile, è complementare al generale asservimento, alle politiche del terrore.
Quali pure elongazioni del sistema queste opere si tengono ben lontane dal farne una deformazione caricaturale, così come dalla tentazione di edificare una retorica ad esso alternativa (soluzioni in gran parte adottate dall’arte novecentesca, nell’illusione di poter scardinare, attraverso la denuncia, lo stato delle cose). Piuttosto esse si collocano docilmente ai suoi lati, implementandone per via parassitaria la già eccessiva produzione simbolica: nella loro aspirazione ad assimilarsi ad esso finiscono per diventarne l’appendice delirante, la scoria tossica.
Fascinazione e repulsione, mimesi e distacco: se dovessi rintracciare degli archetipi dell’operazione di Francesco Bocchini farei i nomi di Munari e Tinguely.
Da una parte le macchine inutili di Bruno Munari, la loro leggerezza atomistica e combinatoria; dall’altra, la gravità metallurgica, opprimente e satura dei macchinari di Jean Tinguely. Leggerezza e gravità, ludica grazia e tragica zavorra, polverizzazione del senso e sua occlusione: due poli che qui sono mirabilmente coniugati, tranne che per una diversità fondamentale. Perché il soggetto del lavoro di Bocchini è risolutamente, e di necessità, decentrato: non si appunta sull’aspetto materiale e costitutivo della macchina, sulla sua fisica presenza, ma sul processo che essa configura, sulle conseguenze antropologiche che la tecnicizzazione della natura, anzi, la naturalizzazione della tecnica ha innescato.
Il soggetto è qui il macchinico, cioè il modello ideologico, il pensiero operativo che dalle macchine si è lentamente insinuato nella nostra vita al punto da assoggettarne ogni espressione, al punto da modificarne profondamente la struttura relazionale e significativa, da investirne il desiderio stesso. Ogni dispositivo, sia esso privato o pubblico, biologico o spirituale, agisce come un meccanismo: è predisposto ad attuare un codice, a condizionare per via algebrica ogni umana manifestazione. Sublimate nella sequenza computabile di gesti e forme, nell’inflazione dei segni, nella pletora degli apparati e degli uffici, nella pre-mediazione dei mezzi di comunicazione di massa, che ha liquidato ogni distinguo storico e culturale, le macchine sono da tempo diventate il nostro solo orizzonte, la nostra sola natura.
Riciclaggio, bricolage, catalogo, logica binaria, serialità, omologazione: ogni prototipo della moderna costruzione del senso è in queste opere documentato.
Nella struttura dell’espositore – algida scaffalatura dell’esistente in forma di edulcorata, inerte reliquia, dove anche insetti e fiori, anche l’istante più incontaminato e più gratuito della vita biologica viene registrato in una rigorosa tassonomia, tradotto in merce di scambio, subito immatricolato.
Nei quadri – dove i soggetti, sprofondati in un duplice passato remoto, quello del supporto fotografico e quello di una campitura di colore talmente uniforme ed estensiva da rendersi analoga a una cancellatura, sono terribilmente espropriati del loro avanzo d’identità: privati del volto, che un timbro digitale, secondo la cieca prassi di un qualsiasi reparto burocratico, provvede a vidimare, a censire in una anonima casistica.
Infine nei meccanismi – presenze, in questo sfondo, di sublime futilità, congegni, o sarebbe meglio dire ordigni, impiantati come una virale escrescenza sul venerabile corpo della produzione. Scarti metallici, latte e lamiere, che inscenano una perfetta apologia della protesi, dove essa da estensione dell’agire umano si è fatta sua indispensabile terminazione. Totalitaria ingerenza della tecnica giunta a invadere persino la dimensione anatomica, in una allucinatoria ipotesi di completa medicalizzazione della vita – la perversione ambulatoriale di un corpo che per la sua sopravvivenza viene innestato a una macchina.
Anche quando questi lavori si presentano sotto un’evidenza asettica, anche quando essi si mostrano levigati, ripuliti da una glassa di vernice sintetica, qualcosa di perturbante continua a toccarci, a confonderci: è il segno della consistenza rugginosa, fatiscente della materia prima, celata dietro la patina laccata del rivestimento – l’opacità, la cattiva coscienza permane, come del resto ovunque, nascosta sotto l’appetibilità di uno strato immacolato, tirato a smalto.
Lo stereotipo gestuale di una macchina che prosegue impassibile la mansione che le compete secondo un dinamismo completamente privo di scopo coincide con lo stereotipo linguistico, con la matricola storica sensibile biologica che quel suo movimento è chiamato a officiare. La meccanica semantica associata a quella fisica ribadisce il fondamento macchinico delle nostre convinzioni, l’isterismo delle conformazioni sociali, l’elemento coercitivo di ogni sapere, quando, per ottenere consenso, si limita a far leva sulle nostre paure primordiali.
I titoli, così come gli elenchi e le nomenclature siglate sul corpo di queste opere verificano e rilanciano a livello testuale ciò che esse recitano. Si compie in questo modo l’estremo sabotaggio del nostro orizzonte significativo, il suo definitivo cortocircuito: attraverso queste didascalie possiamo fare diretta esperienza della ridicola fissità a cui si è ridotto tutto ciò che ci riguarda, tutto ciò che siamo.
Se l’umano si misura dal carattere, dall’espressione (cosa di cui difettano appunto il non-umano e il sovrumano, la marionetta e la divinità) di fronte a queste iscrizioni avvertiamo, senza averne piena consapevolezza, il contagio della meccanica applicata sul vivo, il suo effetto paralizzante e mortifero.
Il riso che la frizione tra questi elementi fa scaturire è essenzialmente crudele: nasce da un significato poggiato in falso negli ingranaggi di un’azione già di per sé paraplegica e inconcludente – come di fronte a uno sketch comico percepiamo il tragico che gli è sotteso solo in forza dell’arresto, dell’irrigidimento del flusso della vita, della sua inesorabile ripetizione.
Fissato e riciclato, ogni slancio vitale, ogni umana prospettiva diventa risibile, si accorcia, fallisce miseramente. “Le rire vient d’une attente qui se résout subitement en rien” – magnifico risolversi in niente di tutto il dispendio energetico, magnifico sollevarsi di una risata sopra tutte le macerie: pare che all’apice del nostro declino l’unica possibilità di una catarsi, di una espiazione risieda solo nell’affondare ulteriormente. Possibilità che queste opere sembrano non escludere, guidate come sono dall’imperativo di fallire ancora, fallire meglio. Di condurci fino alla sublimità della disperazione.
Roberta Bertozzi