GLORIETTE | TESTO DI MARTINA CAVALLARINNo, non siamo al luna park Dalla presentazione in catalogo di Martina Cavallarin L’arte di Francesco Bocchini parte da un tempo speso a dedicarsi ad attività ritualisticamente ripetitive – stendere ed affilare la lamiera, dipanare e riavvolgere parti in ferro, impilare uno sull’altro oggetti piombati riposti su scaffalature, dipingere con il pennello figure sottili e leggere su ovali metallici ineguali. In questo modo certamente F.B. sostituisce l’impersonalità e l’atemporalità costruite in fabbrica dalla scultura minimalista con un misterioso senso di immersione nel tempo di pensiero, sentimento e sforzo. Un lunedì di novembre e come meta lo studio di F.B.. Mi sono lasciata alle spalle Venezia e il bacino di San Marco, ho imboccato la Romea inondata da un sole autunnale ed è stata la laguna di Chioggia, il delta del Po, le valli di Comacchio, i pini marittimi della riviera adriatica. Fino ad inoltrarmi nella Pianura Padana, verso Cesena, e lì chilometri di distese verdi e piatte, interrotte solo da qualche terrapieno che contiene fossi e rigagnoli, per scorgere sorprendente e maestosa all’orizzonte un’enorme ruota panoramica. Quel mondo di immagini di una storia formatasi nella salda realtà di Romagna mi aveva aperto all’opera di F.B. prima ancora di arrivare nel suo studio di Gambettola. Eppure no, non siamo al luna park. Nella realizzazione di un’opera troppi dettagli generano confusione mentre la relazione tra le cose costituisce un progresso. E le matrici progettuali del lavoro di F.B. attingono a questo sistema di relazioni, matrici che si basano su un falso gioco –un gioco non giocoso- effetti di misurazione e creazione di spazio, immagini di rimandi enigmatici, sospensione temporale ed emotiva delle parole incise sulla superficie dell’opera. Per identificare il contenuto con il contesto non bisogna salire sulla ruota panoramica, ma soffermarsi in obliquo sui titoli mentre si è frontali all’opera e nel contempo immaginarsi F.B. mentre cerca tra i materiali di scarto recuperati dalle discariche di Gambettola, ammassi di rottami, oggetti da rigattieri. Da lontano quella ruota panoramica si svela apparendo come un set di Fellini o uno sfondo di un racconto di Tondelli o un meccanismo di F.B.. Eppure nessuno di questi artisti, differenti per cronologia, linguaggio, andamento diacronico e sincronico, riderebbe di spensieratezza scorazzando al luna park. E’ colpa della Pianura, con il suo sentimento dell’abbandono e la sua propensione all’attraversamento intuito come movimento della realtà interiore. E F.B. manipola e muove il metallo con pratica dadaista. E’ colpa della Pianura che per natura recupera il passato per verificare il taglio aperto e la consistenza della frattura. E F.B. taglia il metallo e frattura la lamiera per generare un lavoro che spacca con il passato e genera il contemporaneo. E’ colpa della Pianura che tra la nebbia fa intuire le forme, confonde profili e ombre e restituisce le figure impregnate di umori e terra e sapori. E F.B. appiattisce gli oggetti anche quando sono tridimensionali, restituisce all’immagine un’altra sagoma e un altro odore. Anche quando si sposta dalla parete al pavimento, dal lavoro appeso all’installazione, F.B. sembra sempre voler far compenetrare diverse tendenze, cercando il naturale nell’artificiale, il simbolico e l’umanista nelle concrezioni più monotone e pratiche dell’universo fatto dall’uomo, il gioco nel movimento e nella forma. Oltre a possedere l’ossessione dell’idea F.B. possiede l’ironia e il crudo sarcasmo, iniettati di prepotenza in un forte razionalismo poetico, che lo rendono un artista letterario. Un artista che accentua il senso di distanza e di alienazione, un artista che nonostante la freddezza dei materiali rivela fortissimo l’elemento emotivo. Un artista che confronta rafforzandoli la tattilità dei supporti e la voce dei titoli. La predica disumana fra un balletto e l’altro – Il culo della scimmia patriottica è sempre rovente – Ad ogni poeta la propria pistola – Oramai si mangia il panettone anche in estate – Anche i battellieri del Volga ballano la rumba – Un santo fallimentare per tutti i devoti – La formazione di cristalli sentimentali – Heidegger hotel. Nell’esibizione dell’oggetto artistico F.B. si basa apparentemente su una impalcatura di matrice dadaista nel senso di negazione dei ruoli elitari, nella ricerca che si affida al caso ed a una produzione iconoclasta che però sfocia inevitabilmente nell’apparizione di una precisa forma. C’è poi anche l’intricata costruzione che si avvale della presenza necessaria del titolo come elemento interno all’opera. Quella di F.B. non è però più un ribaltamento e una parodia della scultura tradizionale, ma una pratica del contemporaneo che si avvale per necessità esistenziale di ironia e sarcasmo, citazione ed azzardi. André Breton in un noto scritto sul Dadaismo, riferendosi in particolare al Grande Vetro, ne descrive l’abbondanza di trovate come “interpretazione meccanicistica dell’amore”. E riconoscibile sebbene velata, riscontro nei meccanismi di F.B. una carica sensuale, erotica ed autoerotica, un confronto che si basa sul dualismo tra maschile e femminile, tra ingranaggio e manovella, ferro e lamiera, scritta e colore, tra opera che sale sulla parete o si svolge in piano essendo, verticale ed orizzontale, ancora una volta, parte integrante dei principi maschile e femminile. F.B. agisce per sollecitazioni emotive, partecipe e coinvolto nel captare il presente come istante che fugge e il passato come un bagaglio per avere maggiore consapevolezza e presenza. Allora ci parla attraverso i cappelli di latta colorata di operai caduti nel corso di una manifestazione o, tra scarpine, dentiere e parole, di poeti esiliati e uomini dimenticati. Se lo spettatore gira la manovella sentirà anche un rumore, discontinuo e sferragliante come l’azione della storia. Se ci si pone in silenzio si avverte una ricognizione della realtà, attraverso narrazioni e sogni di racconti. Per ricevere dal lavoro di F.B. occorre guardare senza cercare, ascoltare ed essere pronti ad assimilare. <L’attenzione consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto, nel mantenere in prossimità del proprio pensiero, ma ad un livello inferiore e senza contatto con esso, le diverse conoscenze acquisite che si è costretti ad utilizzare. Il pensiero, rispetto a tutti i pensieri particolari preesistenti, deve essere come un uomo su una montagna, che fissando lontano scorge al tempo stesso sotto di sé, pur senza guardarle, foreste e pianure. E soprattutto il pensiero deve essere vuoto, in attesa; non deve cercare nulla ma essere pronto a ricevere nella sua nuda verità l’oggetto che sta per penetrarvi. > (Simone Weil). Il percorso di F.B. è un incrocio di vitalità ed angoscia, di estensione del colore che rafforza splendidamente la scultura, la attraversa e la gonfia, e spunti di cromatismo che rendono l’opera piatta, pellicolare, retinica. C’è nel sistema produttivo fertile e personale dell’artista romagnolo un continuo dualismo con punte aguzze di andate e ritorni, maschere a parete di personaggi famosi e uomini qualunque, anatre e foglie, conigli e bandiere, farfalle leggiadre e delicate, dipinte con maestria su ovali ineguali di lamiera a comporre l’archivio di una fantastica “historia naturale”. Eppure F.B. circola ma non vacilla, si pone frontale e laterale alla sua creazione con un automatismo gestuale aperto all’impulso che sale come un conato ordinato e si afferma per intensità e chiarezza. Poi rispunta l’ironia e l’irrefrenabile bisogno di narrazione, di impostare racconti, di svelare eccessi e vergogne della realtà, della società, dell’animo umano. Gloriette è un’opera d’arte totale composta da tanti lavori e differenti elementi, ma vitale nella globalità del ritmo strutturato e senza inciampo, mentre la solita e ricorrente e ricercata cecità del caso compone e scompone l’atto creativo. Il codice stilistico di F.B. è inusuale e coraggioso. E’ fuori da mode e tendenze ed inflessioni e suggestioni. Il suo segno si propone intenso ed incessante rispetto alla realtà dell’opera. Nei suoi lavori le implicazioni sono metafisiche e surreali grazie ad assemblaggi e saldature e la resa finale è una composizione di una complessa, intensa, lucida espressività simbolica. L’ossessione si rivolge a giunzioni, margini, bordi, ingranaggi, tutti i punti in cui una cosa ne tocca un’altra. L’impianto non è mai formale, mai statico o lineare caricandosi di una sorta di incantamento paradossale e ricco di stimoli, impregnato di memoria, affidato alla stranezza e arbitrarietà degli accostamenti e alla libertà felice dell’invenzione. Il suo interesse si concentra sul materiale che affidato alle sue mani, intelligenza d’artista, diventa per sottrazione ed aggiunta un “oggetto ospite”. Intanto, parallelo alla genesi dell’opera, la catalogazione si svolge anche su quaderni dai tratti infantili, su squarci di pagine puntigliosamente annotate, cancellate e fittissime dove compare lampante il progetto nella sua interezza: il gioco si basa sullo scambio di significati e sull’ironica proposta di “riciclaggio” che sposta e mette a disposizione all’infinito il ciclo dei significanti e delle sostituzioni in un continuo rimando mentale, di riferimento dada. |